Di Capodarco s’innamorò perdutamente don Angelo, nel 1970, in quello che lui senza eufemismi chiama “l’anno della mia conversione”.

“Conversione”: un nome esagerato? In genere le conversioni si collegano ad un qualche fatto straordinario.
E il fatto straordinario si era verificato una ventina di giorni dopo che don Angelo aveva fato conoscenza con la Comunità di Capodarco e appena prima che a Casa Papa Giovanni arrivasse il primo gruppo di membri del Movimento Studenti Eugubino, per il primo di numerosi campi di lavoro, tutti effettuati in quella casa nella seconda metà del 1970 e nella prima metà del 1971.
A Capodarco c’era anche un gruppo di Udine; lo capeggiava un giovanissimo prete, don Piergiorgio Fain. Erano lì su mandato di don Onelio Ciani, un prete in carrozzina, di 44 anni, che tre anni prima, nel 1967, era stato dichiarato “in quiescenza” dalla Curia Arcivescovile di Udine perché la SLA non gli permetteva più di esercitare il ministero sacerdotale.

Di SLA don Onelio, progressivamente indebolito dalla tremenda malattia, sarebbe morto nel 1999, ma in quel 1970 la sua vita aveva avuto un sussulto: aveva fatto due incontri straordinari; l’incontro fisico con don Piergiorgio e l’incontro spirituale con Marisa Galli; da Marisa gli venne l’idea di aprire anche a Udine una Comunità di Capodarco, da Piergiorgio il sostegno necessario per crederci e per cominciare a realizzarla.
Qualcuno, durante una delle sue tante degenze in ospedale, gli aveva regalato II lato umano, di Marisa Galli, un libro formidabile, pubblicato con una piccola casa editrice di Ancona, La Draga: era la cronaca della nascita e della maturazione spirituale, sua e di don Franco Monterubbianesi, verso il progetto-Comunità; da giorni il libro era lì, sul comodino: don Onelio non era nelle condizioni fisiche di mettersi a leggere.
Ma un giorno -raccontava lui stesso- si sentì come obbligato a prendere in mano il volumetto, lesse e un’intuizione lo folgorò: il percorso di Marisa, handicappata al 100% come lui, poteva essere il suo. Il fatto che Marisa abbia dato un senso alla sua vita da disabile nella realizzazione della Comunità di Capodarco di Fermo diventa quindi un suggerimento per come dare un senso al resto della sua vita, non da paziente ma da protagonista.
Fu colpito in particolare dalle Parole di Marisa:
Davvero tutto quello che abbiamo è dono gratuito di Dio, pure incontrare un tipo come don Franco sul proprio cammino, infatti, adeguando il suo passo al mio, restando protettivo al mio fianco, sostenendomi di continuo senza ripensamenti o interruzioni di sorta, ho esercitato una straordinaria influenza positiva. Se non mi sono annientata in me stessa nonostante la malattia, se non ho innalzato fredde barriere di ghiaccio che mi dividono dagli altri, se non considero l’esistenza attuale come una grande buggeratura, se non osservo tutte le cose sotto un velo di nero pessimismo, se al contrario si nota qualcosa di validamente buono nel mio carattere, se sono riuscito o sviluppare un poco le inclinazioni al bene, se nell’intimo ora c’è uno slancio incontenibile che mi proietta verso il prossimo, se gli eventi che accadono, presenti e futuri, li vedo tutti con sereno ostinato ottimismo, che sovente rasenta quasi l’ingenuità, se al di sopra di ogni prova durissima sovrasta una luce singolare, per cui ritengo bella la vita, seppiatelo tutti che in gran parte lo debbo a lui.
Don Onelio chiuse gli occhi e vide il suo don Franco: era don Piergiorgio Fain. Lo aveva conosciuto quando, assieme ad un gruppo di parrocchiani, il giovane cappellano della Parrocchia udinese di S. Quirino aveva preso a far volontariato nell’ospedale Gervasutta Fra loro era subito nata un’intesa profonda; con lui, con il suo sostegno, poteva ritrovare quello slancio incontenibile che mi proietta verso il prossimo di cui parlava Marisa, lo slancio che aveva già caratterizzato il suo ministero pastorale quando ancora la malattia glielo aveva permesso, prima a Tolmezzo e poi a Barazzetto.
Decisero quindi assieme di prendere contatto con la Comunità di Capodarco e prenderla a modello per un’iniziativa da ripetere anche a Udine.

Don Piergiorgio mise insieme un gruppo di volontari e nel luglio dl 1970 raggiunse Capodarco.
Il 17 luglio 1970 Don Piergiorgio morì annegato sulla spiaggia del Lido di Fermo, a Porto S. Giorgio.
Non amava il mare, l’acqua lo terrorizzava, ma qualche oretta strascorsa sulla rive dell’Adriatico con i suoi e con gli amici di Capodarco lo allettava.
Quando un disabile in carrozzina gli chiese di accompagnarlo in acqua, avrebbe dovuto dire di no, ma se ti sei arreso allo Spirito che Gesù morendo ha comunicato a tutti gli uomini, riesce impossibile negarsi.
Don Piergiorgio annegò in qualche decimetro di acqua, il disabile ne uscì indenne.

Dopo un periodo di comprensibile, durissima depressione, don Onelio prese l’unica decisione possibile per chi come lui, e come tutti i preti, ha sempre ripetuto la frase di Gesù: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore…”: fondò la Comunità di Capodarco di Udine.
Il suo nome fu COMUNITÀ PIERGIORGIO.

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Questa storia del giovanissimo prete che non sapeva dire di no, il giovane prete don Angelo l’aveva ben presente quando, nel 1971, il Fondatore di Capodarco do n Franco Monterubbianesi gli chiese di trasferirsi da Gubbio a Fabriano, pur mantenendo i suoi impegni nella sua città.
Avanti e indietro, anche due volte al giorno (34 km. separano le due città). A Fabriano per tre anni la Comunità La Buona Novella ospitò disabili che volevano recuperare gli anni di studio forzatamente interrotti: pane per i denti di don Angelo, che insegnava lettere al liceo di Gubbio.
Tra i primi Antonia Botta, Rosa Catapano, Giulio Podretti, Silvana Panza. Alla casa soprintendeva Clara Fazzi. L’allegria non mancava: a volte andavamo ad esprimerla anche ai Giardini Pubblici della città
La Comunità di Capodarco opera contro la vasta emarginazione, tant’è vero che alcune delle sue comunità locali accolgono tossicodipendenti, minori, ecc.
Ma a Fabriano vennero, da protagonisti, dei disabili, e la Comunità si concentrò su quella categoria,
Il primo piano di Palazzo Zonghi Lotti, in Via Gentile 26, subito dietro il Teatro Comunale, era stato sommariamente reso agibile dai ragazzi della seconda ondata del Movimento Studenti Eugubino: uno su tutti, Lucio Lauri; ma poi anche Alfredino Monacelli, Edy Capponi, Renato Rogari, il Gige Lanuti, Pietro Biraschi. E Stefano “Gnegno” Benedetti, che poi si fermò a lavorare in comunità due anni. Oggetto di una feroce contesa a colpi di querele tra due gruppi famigliari parenti fra loro (parenti/coltelli), lo stabile era rimasto disabitato per una trentina d’anni, e nel frattempo aveva da mangiare ad un folto gruppo di avvocati della Provincia di Ancona.

Il giardino era una piccola foresta. Vinicio Cacciamani imbracciò il machete e per poco non amputò una gamba a Marco Bonelli. Nel vano della porta della piccola serra in fondo al giardino, lasciata aperta, era cresciuta una pianta alta più di 4 metri. Il primo giorno i coraggiosi ragazzi eugubini dovettero impegnarlo tutto intero a raccogliere la polvere accumulata ovunque; lo fecero con in mano le caldaiole da muratore e a protezione delle narici un fazzoletto alla Jesse James.
Il quartiere eugubino di S. Martino si attivò: Giorgio Bettelli (‘l barbiere) e Ubaldo Casagrande (Baldo del Forno) organizzarono una serie di spedizioni post coenam; per diversi giorni vennero a Fabriano, a lavorare gratis, dalle 21 alle 24, muratori del calibro di Cencino Rosati, Maurizio “Gobbo” Angeletti, Umberto “Tacche” Vispi.
A lavoro finito le giovanissime “cuoche” Cristina Mattei e M. Clara Pascolini la prima sera prepararono una cenetta a base di … sofficini; il Tacche: “Cocche mie, sapete que ce famo? Le lasciamo indurì n’ pochetto e poi ce rivestimo ‘l bagno?”; e così la seconda sera, a mezzanotte, su tavolo della cucina fumava una cofena di pastasciutta aglio, olio e peperoncino.
Il primo giorno delle loro ferie coinvolsero altri muratori, lavorarono “da buio a buio” (come prevedevano a Gubbio, ai primi del 900, i contratti agricoli), realizzarono i pavimenti di diverse stanze, per oltre 150 mq.
I lavori continuarono poi per tre anni; a realizzarli fu Ottorino Montanari, muratore di Ospedaletto di Mocaiana, autentico ingegnere senza laurea (ha solo la licenza elementare): tutti, ma proprio tutti i più difficili problemi, rispetto ai quali avevano alzato le mani fior di ingegneri e di geometri, vennero risolti da lui.
Per una anno visse nella Comunità La Buona novella con tutta la famiglia: la moglie Gianna e i figli Leonello, Donatella e Massimo.
Cose meravigliose fanno in quegli anni i volontari, Ercole Posa di Fabriano, Elisa Amore di Macerata, Tonino Ridolfi di Gubbio.
Ma la più straordinaria presenza è stata quella di Silvano Colbacchini. È arrivato un giorno qualsiasi e, nel suo dialetto veneto dolcissimo, con una “r” moscia che più moscia non si può ci ha chiesto se poteva darci una mano nei lavori edilizi,
Per mesi e mesi ha fatto il manovale con Ottorino, dalle 7 alle 17; gratis, naturalmente, solo con l’assicurazione contro gli infortuni. Alle 17 si metteva a studiare. E dava una mano dovunque c’era bisogno di una mano.
Un giorno ci ha salutato e se n’è andato. Non ci siamo più visti né scritti. L’abbiamo rintracciato dopo 35 anni: oggi è il GIP del Tribunale di Bassano del Grappa.

Il nucleo di disabili da Fabriano si trasferiranno a S. Girolamo è ripreso quasi al completo nella foto: da destra a sinistra Clara Fazzi; Silvana Panza che tiene in grembo Tiziano, il nipotino della sua “sorella di latte” Assunta Marini; Isabella Tancini (che non si trasferirà a S. Girolamo, ma tornerà con Armando e Giovanna nella sua Torino) con Augusta sorella di Tiziano, che sarebbe tragicamente morta a Gubbio; Anna Maria Frejaville; Giuliano Pardini.